Una mattina d’estate alla Camera

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Si apre con una battuta l’incontro alla Sala Aldo Moro della Camera dei Deputati, per la presentazione del libro di Edoardo Novelli “Le campagne elettorali in Italia. Protagonisti, strumenti teorie” (Laterza, 2018). Quella di Paolo Mancini, che auspica che la casa di Novelli (e quella di Filippo Ceccarelli) siano un giorno aperte al pubblico, per poter vedere i loro archivi. Una battuta significativa, perché il libro, come quelli che l’autore ci ha regalato negli anni, è anzitutto un repertorio inesauribile di notizie, sulla comunicazione, sulla politica e sul progressivo sbiadirsi dei confini tra le due. Un processo sempre più inevitabile nella misura in cui le campagne elettorali escono dai confini dei quaranta giorni protocollari, e di protocollare cominciano a non avere quasi più nulla, in termini di protagonisti della contesa e di territori in cui la contesa si svolge.

Dall’alba della Repubblica all’epoca della rete, passando per tre capitoli che affrontano il lungo periodo di egemonia del medium televisivo, il suo arrivo, la sua capacità di scandire i tempi della modernità italiana e infine di costituire l’arena della cosiddetta Seconda Repubblica. Il libro di Novelli ha le virtù, come dice Antonio Palmieri in apertura dell’incontro, della profondità e della rapidità. E tanto Novelli quanto Mancini possono rallegrarsi della scelta di farlo uscire prima delle elezioni politiche del 2018. Perché l’ultima campagna elettorale ha segnato non solo un cambiamento, ma un trauma profondissimo nel tessuto della storia che il libro racconta: è stata quella del sistema ibrido, della scomparsa dei partiti, del ritorno alla ribalta dei temi come aggregatori del consenso (Mancini); quella che ha visto cambiare tutti e quattro i pilastri su cui una campagna si fonda: la legge elettorale, la disponibilità economica di partiti con un ridotto accesso al finanziamento, lo scenario mediale, quello politico (Novelli).

Proprio per questo, per la rapidità che contraddistingue i mutamenti nella politica e nella comunicazione dell’Italia del 2018, occorre prendere il fiato e praticare la virtù della lettura in profondità dei processi. Profondità analitica e storica, per poter consentire a Palmieri di apparire meno autocelebrativo quando prende atto che Forza Italia e Berlusconi hanno anticipato, forse inventato, almeno nel contesto italiano, molte delle traiettorie delle campagne elettorali che sono oggetto di studio a livello internazionale: l’avvio della campagna permanente nel 1998 per le Politiche del 2001; la campagna per i manifesti taroccati che accompagnò “dal basso” quella tornata elettorale; la mossa di accompagnamento “second screen” del pacco del candidato presentato da Berlusconi su Sky nel 2013. Ma anche per invocare, con Ceccarelli, le virtù delle vecchie zie, prima di tutto la memoria, e per riflettere sull’attualità dei caveat che già nel 1948 accompagnavano la possibilità che la politica facesse appello prima alle “viscere” (in ultima analisi alla “pancia”) degli italiani.

Quella stessa memoria che, quando Luca Morisi racconta il modo in cui il brand Lega è stato rilanciato attraverso il brand Salvini, porta lo studioso che abbia letto Statera, ma anche Colarizi e Gervasoni, a evocare l’immagine di quel brand complesso e controverso che fu Craxi, primo leader in Italia a traghettare un partito tradizionale verso la modernità dei media e dei consumi, dei garofani rossi e delle architetture finto-ateniesi. Poi prevale l’analisi, e dagli interventi del responsabile della comunicazione di Matteo Salvini restano sul campo due questioni.

La prima, paradossalmente la più semplice, quella che Morisi riassume nella celebre formula "TRT – Tv, Rete, Territorio” e che Novelli riprende dichiarando che non si vince per la Tv o i social, ma non si vince neanche senza la Tv o i social. C’è qualcosa di più nella ricetta di Morisi che la “semplice” presa d’atto che le presenze televisive sono un traino importante di popolarità, a patto che siano annunciate e accompagnate in diretta dai commenti in rete (sollecitati dal live-tweeting come i live screenshot) e sostenuti da un’adeguata post-produzione (riproposizione e commento di clip). Una presa d’atto importante, soprattutto perché porta con sé la consapevolezza che dalla formula “TRT” traggono forza entrambi i media, perché quando Vespa si avvicina incuriosito a Salvini per capire cosa stia combinando con l’ipad i due mondi finalmente si toccano, si guardano in faccia, almeno in parte si riconoscono, e dal riconoscimento del competitor o dell’alleato traggono immediato beneficio. C’è però ancora qualcosa: c’è il riconoscimento che nella capacità di Salvini di produrre tweet in quello che una volta si sarebbe detto il “gentese” c’è la forza di un leader che è anche giornalista. Un’affermazione che non può che colpire chi, dentro e fuori i media, abbia visto entrambe le categorie ingaggiare un gioco al massacro per la legittimazione nei confronti dell’opinion pubblica, fomentando ora l’anti-politica ora l’anti-giornalismo.

Veniamo alla seconda questione lasciata sul campo dagli scambi tra Morisi e Novelli, la più complicata, che non ha trovato e forse non poteva trovare una risposta, pur parziale, nel pur ricco dibattito della mattinata alla Camera. Se il leader, da Salvini a Renzi, fa tutto lui, se è egli stesso il capo della sua comunicazione, e assume su sé stesso cariche politiche e istituzionali, cosa si perde? Non solo la professionalità dei suoi consulenti, che come Filippo Sensi finiscono sostanzialmente per “prendere i tempi” al leader, come l’allenatore di Carl Lewis. Non solo la distanza delle istituzioni, in quanto portatrici di un profilo appunto “istituzionale”, incompatibile con le lunghe sequele di insulti gratuiti e violenti che accompagnano ogni tweet dell’attuale Ministro degli Interni. Forse, la sopravvivenza stessa della politica.

Si è a lungo parlato di post-partito, ma non sembra ancora superata, pur nelle travagliate trasformazioni subite negli anni, la capacità di queste formazioni di cristallizzare il consenso a livello politico e sociale, facendosi rappresentanti di istanze che possono essere contingenti e non più legate a una grande narrazione ideologica, ma non per questo sono meno reali. E nell’epoca in la politica si fa “micro” e le questioni da affrontare sono sempre più “macro”, come ricorda Ceccarini, il destino di queste istituzioni è cruciale. Ma quale destino possono avere, se protagonisti e temi giocano la partita nonostante le piattaforme partitiche che, sulla carta, rappresentano le opzioni a disposizione per il cittadino-elettore? Se il PD, dopo la perdita di consensi che Morisi attribuisce a una sorta di “umiliazione della base” operata da Renzi, finisce per essere in balia dei destini del suo ultimo leader. Se il controllo del macro-tema immigrazione consente a Salvini, come sottolinea Novelli, di conquistare interi universi di significato non inscritti nella sua storia né in quella del suo partito, come l’italianità.

Dalla sua nicchia, Aldo Moro veglia sornione sull’intera discussione. Il Presidente che fu sacrificato, e dal cui sacrificio la DC trovò la forza di resistere alla prima ondata di modernità italiana. Che questa sia la Seconda o la Terza Repubblica, per fortuna e purtroppo non è più la Repubblica di quel tipo di partito. Ma tra il Moloch e il partito che rischia di vivere solo un giorno, come le rose, un’onesta via di messo andrà pur trovata. 

di Christian Ruggiero