Ancora 48 ore e conosceremo i nomi dei nuovi sindaci di Roma, Milano, Napoli, Torino, Bologna, Trieste e di altri venti capoluoghi di provincia. E’ una partita molto difficile per il Pd del premier-segretario Matteo Renzi, che dopo il risultato non brillante del primo turno ha annunciato l’intenzione di voler mettere mano profondamente ad un partito sempre più lacerato dalle divisioni interne – ultimo il “caso D’Alema”, anche se l’ex leader ha smentito il suo presunto normal">voto contro nella Capitale – e in preda ad una sindrome da accerchiamento da parte di tutti i suoi avversari politici, che potrebbero, almeno de facto, coalizzarglisi contro. In base a quanto è già accaduto in passato, infatti, pur in mancanza di apparentamenti formali è alquanto probabile che in nome della comune avversione a Renzi il passaggio logico lo compiano gli elettori del Movimento Cinque stelle e del centrodestra (tranne forse la componente centrista più moderata) nelle città in cui i rispettivi candidati sono rimasti esclusi dal ballottaggio.
Il premier Renzi, che si è giustamente affrettato a smentire possibili ripercussioni sul Governo nazionale, non può però lamentarsi più di tanto, visto che è stato proprio lui, già da tempo, a lanciare con un anticipo che a molti è parso eccessivo la campagna elettorale nazionale per il referendum di ottobre sulle modifiche alla Costituzione – quello sì, decisivo per il suo futuro politico – suggerendo implicitamente alle opposizioni di ogni ordine e grado, schierate compattamente per il ‘NO’, di stringere almeno un’alleanza tattica contro di lui.
La prova generale di tale rassemblement si svolgerà domenica prossima ai ballottaggi, dopo un primo turno che ha visto spesso in difficoltà i candidati appoggiati dal Partito democratico: a Napoli la vincitrice delle contestate primarie Valeria Valente è già stata eliminata, mentre negli altri cinque capoluoghi di Regione la partita si presenta incerta ovunque, anche se con rischi differenziati. A Roma il renziano ex radicale Roberto Giachetti deve recuperare dieci punti alla grillina Virginia Raggi; la stessa distanza separa il sindaco di Trieste Roberto Cosolino dal suo predecessore di centrodestra Roberto Dipiazza. E’ invece arrivato primo ma sotto il 40% il sindaco di Bologna Virginio Merola, mentre hanno fatto registrare performance appena migliori l’ex “Mr. Expo” di Milano Giuseppe Sala (41,7%) ed il sindaco di Torino (e presidente dell’Anci) Piero Fassino (41,8%).
Più amati di loro tre primi cittadini che hanno ottenuto la riconferma al primo turno: Mario Occhiuto a Cosenza per il centrodestra, Andrea Gnassi a Rimini per il Pd (che tiene anche Salerno dove il candidato del neogovernatore De Luca, Vincenzo Napoli, “eredita” il suo tradizionale 70%) ed il giovane sindaco di Sel Massimo Zedda a Cagliari. Proprio questa è stata forse la principale sorpresa elettorale del 5 giugno, e ha portato acqua al mulino di chi sostiene che il centrosinistra può vincere solamente (o comunque, molto più facilmente) quando è unito, rispetto a quando si presenta diviso in due tronconi, «l’un contro l’altro armato» e con quello principale che strizza l’occhio al centro. Tanto più che la conferma di Zedda era tutt’altro che scontata, in una città che fino al 2011 non aveva mai eletto un sindaco di sinistra. Se allora la vittoria del giovane esponente di Sel era stata messa in secondo piano dal contemporaneo trionfo di Giuliano Pisapia a Milano – che dal 1993 aveva sempre votato per il centrodestra – questa volta la scena è stata tutta per lui.
Data la performance tutt’altro che brillante di Stefano Fassina a Roma (quinto con il 4,47%), se giocherà bene le sue carte il giovane e sorridente sindaco sardo potrebbe aspirare ad avere un ruolo di primo piano nella nascente “Sinistra italiana”, ennesima incarnazione della rappresentanza politica nello schieramento più ideologicamente avverso a quello dei moderati. Nei prossimi cinque anni sarà quindi Cagliari la nuova capitale della sinistra al posto della tradizionale Bologna – espugnata da Guazzaloca già nel 1999 e che stavolta potrebbe addirittura scegliere un sindaco leghista – o della Puglia, illusoria terra promessa nella breve stagione delle Fabbriche di Nichi Vendola? Il voto di domenica, pur nella sua dimensione locale, risponderà anche a questo interrogativo.
Intanto il primo turno ha confermato come il Pd, l’unico vero partito di massa del paese, appaia sempre più spesso in piena crisi sul territorio: di identità e di leadership, ancora prima che di risultati. Né sembrano aiutarlo più di tanto le primarie, come sembra indicare il caso di Napoli, dove il Pd rimane escluso dal ballottaggio per la seconda volta consecutiva dopo averla amministrata ininterrottamente dal 1993 al 2011, e nonostante settimane di pubblicità gratuita relativa alle contestazioni dello sconfitto Antonio Bassolino, ex storico sindaco ed ex presidente della Regione Campania. Sul tracollo del Partito democratico a Napoli – e forse non solo – potrebbe aver pesato anche la vicenda “Ala”: la neonata formazione politica di Denis Verdini ha infatti raccolto all’ombra del Vesuvio appena 5.361 voti, ma a conti fatti l’inattesa alleanza con l’ex coordinatore di Forza Italia potrebbe aver alienato al Pd molti più consensi, favorendo l’exploit del sindaco uscente Luigi De Magistris, ormai orfano del dissolto “movimento arancione”, che è in testa al primo turno con un sorprendente 42,8% pur potendo contare solo sulle sue varie liste civiche e sull’appoggio di una quanto mai sparpagliata galassia di sinistra. A contendergli la fascia tricolore, come cinque anni fa, il forzista Gianni Lettieri, che allora partiva favorito e stavolta invece insegue con un modesto 23,4%.
Ma se a Napoli il Pd ha già perso, domenica rischia di soccombere anche in altre città. Prime fra tutte due storiche roccheforti come Bologna e Torino, dove al ballottaggio l’istanza di cambiamento potrebbe far convergere i voti grillini e leghisti sulle candidate “meno politicamente distanti” Lucia Borgonzoni e Chiara Appendino: giovani e certamente estranee al consolidato ceto politico locale. In particolare a Torino, dove la “rottamazione” non è mai arrivata: il sindaco-candidato è infatti l’ex ministro e ultimo segretario nazionale dei Ds Piero Fassino, succeduto cinque anni fa a Sergio Chiamparino, che oggi presiede la Regione Piemonte. E’ pertanto possibile che si verifichi un massiccio normal">voto contro ai danni del Pd là dove i suoi candidati sono percepiti da molti elettori come eredi (incolpevoli) di una gestione disastrosa, come Giachetti a Roma, o più semplicemente come appartenenti ad un “apparato” consolidato che oggi nelle grandi città, soprattutto del centronord, viene sempre più spesso rifiutato e considerato – non importa se a torto o a ragione – il simbolo stesso dell’inefficienza partitocratica quando non addirittura anticamera della corruzione. A Torino e Bologna potrebbe quindi ripetersi quello che è accaduto nel 2014 in altri due storici bastioni della sinistra come Livorno (espugnata dal grillino Filippo Nogarin) e Perugia (passata al centrodestra con il giovane Andrea Romizi).
Intanto la divisione fa male anche al centrodestra: da quando nel 2013 lo schema politico italiano è diventato tripolare, infatti, presentarsi separati comporta il forte rischio non solo che la guerra fratricida avvantaggi enormemente gli avversari storici, ma addirittura quello di arrivare terzi e quarti favorendo il sorpasso del Movimento Cinque stelle, che infatti è riuscito ad inserirsi nei ballottaggi di Roma – addirittura in testa, sull’onda dello scandalo ‘Mafia Capitale’ – e Torino, lasciando fuori sia i candidati di Berlusconi che quelli di Salvini. Lo scisma ha assunto il tono dello psicodramma a Roma, con la contemporanea eliminazione di Giorgia Meloni ed Alfio Marchini, dopo che il centrodestra aveva rischiato di presentarsi addirittura con quattro candidati prima del ritiro di Bertolaso e Storace. La controprova sono invece i buoni risultati ottenuti grazie all’appoggio dell’intera coalizione da due esponenti moderati: il triestino Dipiazza (oggi con il Nuovo Centrodestra dopo una vita in Forza Italia) ed il manager Stefano Parisi a Milano, che è andato al ballottaggio con appena l’1% di distacco dal grande favorito Sala e sogna adesso un clamoroso sorpasso. Se dovesse riuscire nell’impresa, sarebbe l’unica sconfitta politicamente davvero rilevante per Matteo Renzi, che fin dai tempi dell’Expo e del suo insediamento a Palazzo Chigi ha puntato molto su Milano: capitale economico-finanziaria del paese e città simbolo di quei ceti produttivi che hanno sempre guardato con scetticismo (quando non con aperta ostilità) alla sinistra, e che il premier di formazione cattolico-progressista sta cercando invece di aggiungere al tradizionale elettorato di riferimento del Partito democratico, anche a costo di perderne quasi certamente una parte come “rischio calcolato”. Finora però tali voti extra sembrano essersi materializzati solamente alle Europee del 2014 quando in campo c’è stato lo stesso Renzi (per di più durante la tradizionale “luna di miele” di inizio incarico, sia pure sui generis perché a legislatura già in corso) e non invece alle elezioni regionali 2015 in Veneto e Liguria e alle amministrative in genere.
A Milano la sinistra ortodossa, delusa dal rifiuto di Pisapia di correre per un secondo mandato, ha partecipato alle primarie di coalizione con Sel ma poi ha rifiutato di appoggiare il vincitore Sala e ha schierato – sotto un’altra bandiera – un suo candidato, che ha raccolto appena il 3,6%. E’ lì (e solo lì) che verosimilmente lunedì mattina guarderà Renzi, perché domenica gli elettori milanesi non sceglieranno solo il loro sindaco per i prossimi cinque anni: daranno anche una forte indicazione al centrosinistra fra “modello Cagliari” e “modello Expo”.
di Alessandro Testa