Note sul dominio del registro pop nella telepolitica italiana

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Mentre scorrono placide le ore di un week end che non offre grandi spunti al dibattito politico-televisivo, c’è finalmente la possibilità di riflettere su ciò che è accaduto una settimana fa, sulla presenza dei due Mattei nazionali in due delle trasmissioni maggiormente popdella tv italiana: Salvini a C’è posta per te  sabato 5 marzo e Renzi a Domenica Live domenica 6 marzo. In due soli giorni, l’occasione imperdibile di riflettere sullo stato attuale della pop politics (Mazzoleni, Sfardini, 2009), e alle sue declinazioni, in parte inaspettate.

 

 

C’è posta per Matteo

 

Il primo caso è appunto un momento di innovazione comunicativa rispetto a una strategia niente affatto innovativa, la presentazione in chiave pop della politica, delle sue storie e dei suoi protagonisti, nei media (Van Zoonen, 2005).

 

Per introdurre la presenza di Matteo Salvini nella sua trasmissione, Maria De Filippi chiede alla regia di mandare una foto che, tiene a sottolineare, non ha scelto lei: quella apparsa sulla copertina di Oggi, il “Salvini desnudo”. A scrivere al leader della Lega sono due sorelle che fanno il mestiere più antico del mondo, che hanno conosciuto Salvini da giovane e vogliono ora incontrarlo prima che lui, per mettere a tacere tutto, riesca a confinarle nelle case chiuse. Entrano Greggio e Iacchetti, nei panni di Lombi e Piemonti Falò: la ragione della mediazione richiesta alla De Filippi è presto detta: se il Matteo potesse dar loro una mano, visto che è diventato un uomo importante, e che “in Parlamento c’è anche una certa passione” per coloro le quali fanno la professione…

Salvini fa il suo ingresso e premette “non so dove sono capitato”, ma anche di aver avuto il placet di suo figlio, che, saputo che andava dalla De Filippi, avrebbe commentato “fiiiigo!”. Per lui, una sola condizione ad aprire la busta: che non ci sia una persona; non Renzi, specifica subito, ma la Fornero. Mostra di accettare il gioco di buon grado, salvo dover spiegare alla figlia di tre anni cosa siano le due persone apparse all’aprirsi della busta, e specificare per la mamma che non è vero niente. Promette a Piemonti/Iacchetti di invitarla fra le prime a Palazzo Chigi – con scarso successo, avendone lei e la sorella già conosciuti tanti lì. All’aprirsi del trolley che Lombi porta con sé, si accende alla vista delle manette foderate di pelo rosa, che approva perché vuole “sicurezza dappertutto”, e mostra di ricordare i massaggi sexy fatti a Piemonti con le ruspe giocattolo. Sul referendum per le case chiuse, dichiara di volerne fare oggetto di referendum l’indomani stesso, per dare alle due sicurezza ed esser certo che paghino le tasse – anche se Piemonti si chiede a chi potrebbe poi intestare la fattura, qualora Salvini decidesse di presentarsi nuovamente da lei.

Il frutto del loro amore, “tutta roba naturale, niente affitti”, è incarnato prima in Salvo (detto Salvino) e Ottone (chiamato così in onore della lega), poi nel figlio di una terza donna, straniera (“Regolare? Sennò andale!”), Immy (diminutivo di Immigrato) – che le due non si rassegnano a vedere spedito in una piattaforma petrolifera. Di fronte a questo spettacolo, Salvini è tentato di chiudere la busta, ma, conscio che sarebbe una brutta figura, acconsente a farsi oggetto dell’assalto dei due amori e dei tre figli ritrovati, approfittando del quadretto da famiglia allargata per un mini-spot finale sull’opportunità di garantire, come in Francia, asili nido gratuiti per i bimbi fino a due anni, “così almeno vengono riconosciuti”.

 

Quaranta minuti godibilissimi, in cui i riferimenti politici si amalgamano in un plot comico che, pur nella sua inverosimiglianza, ben si attaglia al format di C’è posta per te. Il tono scherzoso non viene mai meno, pur se, nel suo “stare al gioco”, Salvini riesce in due risultati non indifferenti. Ribadisce, in un contrasto che complessivamente non stride con la storia messa in scena, la centralità della famiglia – a partire dai numerosi riferimenti alla sua – e l’importanza di non derogare in nessun caso alla legalità e all’ordine in tema di immigrazione. Lo spettacolo, in cui il ruolo della De Filippi è inusualmente (e intelligentemente, dal punto di vista politico) marginale, non può dirsi costruito per Salvini, nella misura in cui la situazione è talmente grottesca che il potenziale comico di avere il leader leghista come attore di questa farsa è televisivamente prima che politicamente esplosivo. La stessa eccessività della scena rende difficile a un politico che non da oggi strizza l’occhio alla popolarizzazione della sua figura di interpretare con sapienza la sua parte, con una significativa differenza rispetto al passato.

Era senza dubbio pop la partecipazione, nell’ormai lontano 2005, di Piero Fassino allo stesso programma (Crapis, 2006). Ma in quel caso, il meccanismo narrativo del format ne usciva inalterato, l’eccezionalità stava nell’avere il Segretario di un grande partito politico in studio a reincontrare la sua tata di un tempo, e a regalare a favor di telecamera qualche lacrima di nostalgia, richiamando alla mente la canzone preferita di allora (Ventiquattromila baci) e l’offerta di matrimonio che le fece per non farla andar via.

È meglio definibile come trash la partecipazione di Salvini a C’è posta per te oltre dieci anni dopo. Intendendo il trash come macro-genere nel quale va a situarsi quella trasgressione, verbale o gestuale, dunque legata al linguaggio o all’uso del corpo, che Bentivegna e Morcellini (1989) contrappongono al nazional-popolare. Trasgressione come elemento alla base quei programmi (Trasmissione forzata, Teste di gomme e L’Araba Fenice) che, tra i tardi anni Ottanta e i primi anni Novanta, esprimevano una forma di correlazione con l’assetto dei valori vissuti da una società che gli autori definivano come “retorica del nuovo” (Ivi: 13), all’interno dei quali acquisivano particolare importanza i temi attinenti alla dimensione politica, in particolare i riferimenti “alla mancanza di autorevolezza dei personaggi politici ed alla ricerca del potere, presentato come disvalore” (Ivi: 84).

Oggi, questa autorevolezza è riconquistata dimostrando di sapersi muovere su un palcoscenico televisivo che non è solo quello dei talk di approfondimento, nei quali pure Salvini interviene senza paura di saturare l’economia dell’attenzione dei cittadini-spettatori. Vista proprio questa estrema familiarità del leader leghista con l’ambiente della telepolitica, la prova che l’eroe politico in televisione è chiamato a superare è piuttosto quella del successo comunicativo entro un contesto assolutamente pop, che per l’occasione enfatizza allo stremo la dimensione trasgressiva introdotta con l’intervento del duo Greggio-Iacchetti passando decisamente la linea del trash.

 

 

Le confessioni di Matteo

 

La musica che introduce Matteo Renzi nello studio di Domenica Live, come farà notare la D’Urso appena preso posto, è del Premio Oscar Ennio Morricone, per l’esattezza parte della colonna sonora del film “Mission”, che Renzi ammette aver scoperto recentemente essere del 1986, e non aver preso l’Oscar. Un omaggio all’eccellenza italiana. Sin dall’apertura, il mix tra la già citata presentazione in chiave pop della politica e la seconda strategia individuata da Van Zoonen (2005): l‘uso di codici pop da parte degli attori politici, quando si “esibiscono” sul palcoscenico dei media.

Il “tu” tra i due, l’annullamento istantaneo delle distanze tra intervistatore e intervistato lucidamente stigmatizzato da Aldo Grasso sul Corriere della Sera del 7 marzo, parte in effetti dal Presidente del Consiglio, che entra da buon politico salutando quasi a uno a uno i componenti del pubblico in studio – quale miglior esempio di un simulacro del pubblico televisivo che si fa simulacro del cittadino-elettore? – e, raggiunta la conduttrice, esordisce con un “Barbara come stai?” mentre entrambi si protendono l’uno verso l’altra per il bacio di rito.

La prima mossa della D’Urso è uno dei segnali ormai convenzionali del patto d’ospitalità (Casetti, 1988) sottostante alla logica del salotto televisivo, affinata e resa celebre da Porta a Porta, tale per cui la familiarità con cui il conduttore si rivolge agli  ospiti politici, ricordando la loro presenza in quella stessa sede, è funzionale a riannodare il filo di una narrazione che sembra dover obbligatoriamente  passare per il suo salotto (Bionda, Bourlot, Cobianchi, Villa, 1998). “Tu sei venuto da me, l’altra sera mi hai scritto e mi hai detto ‘Io ti avevo fatto una promessa sui diritti civili, e vengo a partlartene’ […] Siamo partiti qui con il bonus bebè, te lo ricordi? Hai dato tu la notizia qui da me…”. L’assist è immediatamente colto, e Renzi inizia a snocciolare cifre su quanti abbiano usufruito di quel bonus. La D’Urso prosegue nell’elenco degli obiettivi raggiunti, anticipa la tematica dei diritti civili ma in seconda battuta vuol chiedere a Renzi di una delle battaglie storiche che l’hanno vista coinvolta come personaggio pubblico: “L’omicidio stradale è un altro obiettivo raggiunto?”. Qui lo scambio comunicativo si fa già più forzato: è la seconda softball question di fila, considerando che l’obiettivo non è certo quello di rievocare le difficoltà dell’iter parlamentare – nulla osta che una conduttrice, per quanto non iscritta all’Ordine dei giornalisti, utilizzi le strategie classiche di conduzione di un’intervista, alternando domande “facili”, volte a mettere a proprio agio l’ospite, con domande “difficili”, volte a cercare la verità a beneficio dei telespettatori, è nella mancanza di queste ultime che si vede la mancanza di professionalità nell’intervista, non nei presupposti di appartenenza professionale dei “contendenti”. Soprattutto, è l’occasione per Renzi di passare da quelle che potrebbero essere policy issues, legate alle  politiche governative, amministrative e  legislative, ma anche ai “problemi  concreti” che toccano da vicino la vita e  l’interesse dei cittadini, a una electoral issue (Patterson, 1980): “Questa credo sia una cosa che deve far contenti tutti gli italiani. Quando arriveremo, tra due anni, alle elezioni, ciascuno farà le valutazioni destra-sinistra, sopra-sotto, ma questa vorrei davvero fosse una cosa di tutti”.

Il tema dei diritti civili è introdotto con l’esibizione di un nastro arcobaleno e la richiesta alla regia di mandare la cover di Sette su “La dura battaglia per le unioni civili”. Renzi scherza: “Avevo promesso della legge sui diritti civili, non che Barbara D’Urso avrebbe iniziato a farsi la barba”, poi ammette che non si tratta ancora di una legge, ma si dice sicuro che all’approvazione del Senato seguirà quella della Camera, perché in un caso come nell’altro l’arma vincente resta quella della fiducia, e lui è disposto ancora una volta a “rischiare l’osso del collo” per una battaglia in cui crede. Segue una domanda apparentemente insidiosa, sulla delusione dei “rainbow” circa la contestata stepchild adoption; Renzi schiva il colpo accennando alle colpe del MoVimento 5 Stelle e dichiarando di voler lasciare fuori dalla porta il “politichese”, perché “se passa il principio che tutti i politici sono uguali, che tutti i politici rubano, che sono tutti allo stesso modo, siamo rovinati. Bisogna saper distinguere: quelli che rubano a calci a casa, anzi in carcere; quelli per bene vanno difesi”. Un bizzarro intermezzo, funzionale unicamente ad accennare un possibile legame tra i parlamentari a 5 Stelle e i politici che non meritano di essere difesi, al quale segue un classico esempio di reframing (Lakoff, Johnson, 1980): il tema viene rapidamente allargato al comparto più ampio delle politiche relative alle adozioni, citando il bene dei bambini ospitati dagli orfanotrofi, in netto contrasto con l’apparente sforzo della D’Urso di spiegare il concetto di stepchild adoption come diritto all’adozione del figlio del/della compagno/a. Il principio della “realizzazione delle cose piano piano” è poi suffragato da esempi autocelebrativi come gli 80 Euro di bonus per le forze dell’ordine e le tasse per la casa; e l’operazione di reframing prosegue parlando della necessità di investire sulle donne, nel lavoro e non solo, senza che la conduttrice faccia nulla per riportare il discorso su un tema che pure ha introdotto come una sua battaglia personale e professionale.

Non ha maggior fortuna la domanda sull’utero in affitto, che parte dal caso Vendola, incassa il “no” di Renzi, ma non decolla in quanto né il Presidente del Consiglio né la conduttrice si dicono pronti a una discussione nel merito. Una lettura onestamente bizzarra della massima wittgensteiniana del “Ciò di cui non si può parlare si deve tacere”, che guida anche la risposta di Renzi sulla questione libica, che pure ha fatto agenda più delle altre nei titoli delle agenzie di stampa: “Quando si parla di scelte di politiche del lavoro, o di legge elettorale è chiaro che bisogna essere molto assertivi, molto duri, e ciascuno può pensarla come crede, ma sono scelte che incrociano la dimensione normale della politica. Quando si parla di guerra bisognerebbe andarci in punta di piedi, con molta calma. Vedo gente che dice: mandiamo cinquemila uomini. E che, è un videogioco questo? … Quando l’Italia deve fare la sua parte è chiaro che la fa, ma la situazione oggi in Libia non è a questo livello … Quando tu fai il Primo Ministro devi essere molto prudente quando si parla di guerra. E allora: uno. oggi non è all’ordine del giorno la missione militare italiana in Libia, perché la prima cosa da fare è che si faccia lì un governo … che abbia la possibilità di chiamare lui un eventuale intervento”. Una strategia di disengagement non solo militare, ma anzitutto retorica, un’altra occasione persa per la conduttrice, volendo ammettere che fare domande volesse essere il suo ruolo in quel contesto. la D’Urso, invece, assiste complice ad un’altra operazione di reframing: dalla Libia si passa in Iraq, dalla situazione geopolitica all’eccellenza italiana, dalla guerra alla vittoria da parte di un’azienda italiana della gara per realizzare una diga a Mosul. Lascia che Renzi divaghi, la D’Urso, salvo riprendere in coda la domanda iniziale, per facilitare il compito delle agenzie di stampa nel riportare il virgolettato del Presidente del Consiglio: “In Libia l’Italia con i cinquemila uomini a fare l’invasione della Libia con me Presidente non ci va”.

La discussione procede con il medesimo registro. Si po’ aver fiducia nelle banche? Certo che sì, risponde il Presidente del Consiglio, salvo concentrare la sua risposta sull’eccesso di banchieri in Italia e sulla necessità di adeguarsi alle norme europee, nonché sul caveat di distinguere tra chi ha perso i propri soldi perché truffato e chi li ha persi in quanto speculatore, più che sui rischi che le sue due nonne potrebbero correre rispetto ai loro risparmi. E virare rapidamente sulla critica all’ideologia del posto fisso, e al suo superamento.

La chiarezza richiesta sulle pensioni è liquidata con un’autodichiarazione di affidabilità (“Io finché non sono certo degli impegni che prendo non prendo impegni sulle pensioni”): la realizzazione di obbiettivi giudicati impossibili come il completamente della Salerno-Reggio Calabria e di per sé la garanzia (implicita) del raggiungimento (differito al tempo in cui “starà dentro” i conti pubblici) dell’aumento delle pensioni. D’altronde, ci sono da ammettere (e risolvere) le colpe di un passato dove si andava in pensione troppo presto, incarnato magistralmente sul grande schermo da Checco Zalone (ancora un importante l‘uso di codici pop sul palcoscenico dei media). E la funzione della conduttrice è ancora quella di sollecitare l’impegno lapidario: niente tagli alle pensioni, né alla reversibilità.

Il richiamo sindacale a Mauro Felicori, Direttore della Reggia di Caserta, è liquidato da un lato con l’outing della D’Urso che ammette anche lei di lavorare sovente fino a mezzanotte, dall’altro con la presentazione da parte di Renzi dei dati che dimostrano il buon risultato del lavoro del nuovo Direttore. Ma soprattutto è l’occasione per lui di condurre un breve attacco ai “commentatoroni” che sostengono che a Domenica Live non si possa parlare di cultura, “perché pensano di averne il monopolio”, e per lei di vantare en passant la sua vittoria in tribunale circa la possibilità di condurre interviste “extra-giornalistiche”.

 

Un punto, per quanto non l’ultimo in ordine cronologico, che tocca un elemento nodale della declinazione italiana della politica pop. Mazzoleni e Sfardini (2009) parlano dell’ibridazione dell’immagine del giornalista con quella del presentatore, mixando esempi “seri” (Vespa, Costanzo) e “leggeri” (Parodi, Cucuzza). I quarantadue minuti netti di intervista a Matteo Renzi riaprono il “caso D’Urso” anche per la coincidenza dell’archiviazione dell’accusa, mossa dal Presidente dell’Ordine dei Giornalisti Enzo Iacopino, di “esercizio abusivo della professione giornalistica” verso la conduttrice, introducendo un elemento di discrimine basato sul riconoscimento professionale della figura dell’intervistatore in quanto giornalista. Il problema non è però tanto di ordine professionale, quanto di gestione del patto comunicativo. Già nella definizione di Casetti (1988), le figure del presentatore (“‘maestro di cerimonia’ che introduce la festa, ne spiega il senso, collega i vari momenti tra loro, insomma conduce lo spettatore attraverso le molteplici sezioni dello spettacolo”, p. 88) e del conduttore (“padrone o della padrona di casa, che dà luogo all’accoglienza all’ospite e che, insieme all’ospite, invita lo spettatore a sentirsi parte di una piccola comunità”, p. 100) presentano larghi spazi di sovrapposizione. L’ibridazione di queste funzioni comunicative, generate rispettivamente dal patto dello spettacolo e da quello dell’ospitalità, con la funzione informativa, originariamente confinata in un patto dell’apprendimento che declina con il declinare non tanto della missione quanto della percezione della televisione come strumento pedagogico (Morcellini, 1989) rappresenta di fatto una “liberazione” che non può essere rinnegata. Piuttosto, preso atto dell’ibrido che abbiamo di fronte, l’interesse sta nell’individuare le “parti” che contribuiscono alla creazione del cocktail info-intrattenitivo che prende vita nel salotto di Barbara D’Urso. Prendere atto che la funzione del giornalismo in quanto mediazione della realtà è soddisfatta dalla capacità della conduttrice di ricapitolare i maggiori temi sul tavolo dell’agenda politica in tre quarti d’ora di chiacchierata, piana e condotta con toni “soft”. E che per scavare un po’ più in profondità nelle dichiarazioni di un Presidente del Consiglio non sarebbe certo necessario ricorrere a quella gestione conflittuale del dibattito che è la prima accusa rivolta al talk italiano, e rispetto alla quale rischia di uscire vincente una versione edulcorata della pop politics, che non può rappresentarne la declinazione principale nel panorama politico-televisivo italiano.

 

di Christian Ruggiero