L’apparato non c’è più, crollano le roccaforti rosse. Renzi è ancora leader, ma se vuole rimanere premier deve ricominciare a “rottamare”
Stavolta non c’è diplomazia che tenga: alle comunali 2015 – e in particolare ai ballottaggi – il Pd ha perso. E non c’è dubbio che il segretario nazionale Matteo Renzi non può alzare le spalle e fare finta di niente: è vero che il test era troppo piccolo per avere ripercussioni sul Governo (che in ogni caso non era direttamente coinvolto), ma è altrettanto vero che gli altri due schieramenti politici ne sono emersi vincitori localmente e rinvigoriti politicamente. Il centrodestra è infatti riuscito a dimostrare che quando si ricompatta è ancora vivo e in salute, mentre il Movimento Cinque stelle ha ribadito che quando riesce a forzare la tenaglia del bipolarismo e ad arrivare al ballottaggi è più che capace di (stra)vincere, calamitando sul proprio candidato tutti i voti degli esclusi, come era già successo negli anni scorsi a Parma e Livorno.
Chi invece sta veramente crollando, elezione dopo elezione, è il tradizionale apparato del Pd: ai ballottaggi ha fatto rumore la sconfitta a Venezia (la prima dal 1993, da quando è stata introdotta l’elezione diretta dei sindaci), ma nel loro piccolo sono ugualmente clamorose le sconfitte nelle ex “rosse” Arezzo, Fermo, Matera, Nuoro ed Enna (dove per la prima volta è stato battuto lo storico “ras” locale Vladimiro Crisafulli).
A ben guardare, infatti, gli elettori chiamati alle urne non hanno voluto tanto punire il Pd nazionale o il Governo, che pure si sono certamente indeboliti negli ultimi mesi a causa rispettivamente dei ripetuti scandali (cantieri Expo, “Mose” di Venezia, “Mafia Capitale”) e delle contestazioni alle riforme, prima tra tutte quella della scuola. Ad essere rigettati sono stati quasi ovunque i potentati locali, sia in forma personale che collettiva. Per questo il Pd, il partito tradizionalmente più radicato nei territori, stavolta ha perso nettamente dove era favorito e invece ha strappato al centrodestra – per il quale ovviamente vale il discorso inverso – una città storicamente moderata come Trani e si è ripreso Mantova dopo appena cinque anni di opposizione. Lo stesso ragionamento, portato all’ennesima potenza, ha generato l’en plein del movimento fondato da Beppe Grillo in cinque città medio-piccole. Tra loro non c’erano capoluoghi di provincia, ma è molto significativa la vittoria nella siciliana Gela: la città della raffineria, dell’abusivismo edilizio e del discusso “governatore” democratico Rosario Crocetta.
Più in generale, il calo dell’affluenza (crollata dal 63% del primo turno al 47% dei ballottaggi: perfino peggio del 52% delle regionali) dimostra come l’elettorato sia stanco e sfiduciato, dopo sette anni di crisi economica e con un livello di corruzione e decadimento della vita pubblica che sembra perfino più alto rispetto agli anni di Tangentopoli. Il tracollo della nostra democrazia non è un pericolo immediato, ma rimane uno scenario possibile nel medio periodo, se l’attuale ceto politico non saprà porvi un argine dimostrando di avere realmente a cuore gli interessi degli italiani e non soltanto quelli – legali o meno – di (relativamente) pochi privilegiati. Certo non aiutano notizie come quella dell’ex dirigente di un’azienda telefonica che, grazie alle generose leggi allora in vigore, percepisce oggi una pensione di 91mila euro (lordi) al mese. Non sarà un caso se nel 2014, per la prima volta in Italia ci sono stati più morti che nascite (contando anche i figli degli immigrati): la fiducia nel futuro del nostro Paese sta calando drasticamente, e ci vorrà tutto l’impegno del Governo per invertire la rotta.
Oggi Matteo Renzi sembra ancora essere quel «valore aggiunto» che è sempre mancato alla sinistra prima e al centrosinistra poi per vincere le elezioni e poi governare, ma dopo un anno di governo il suo passo si è già inevitabilmente appesantito. E’ lui stesso il primo a sapere che ristagnare a Palazzo Chigi lo porterebbe in poco tempo ad un prematuro pensionamento politico, perciò ha già fatto sapere che «rilancerà sulle riforme». Bene: come presidente del Consiglio ne ha certamente il diritto, anzi il dovere. Gli consigliamo però di rimettere nell’agenda politica la parola magica che in pochi anni ha trasformato uno sconosciuto giovane sindaco in un “fenomeno” nazionale, cioè la «rottamazione». Al di là delle sorti personali di leader ormai tramontati come D’Alema e Veltroni, infatti, tra il 2010 il 2014 in molti hanno visto in quelle dodici lettere la promessa di un’Italia nuova, fresca, pulita, giovane e meritocratica. Quell’elettorato “d’opinione” – parte del quale nel 2013 aveva contribuito all’inatteso grande exploit di Grillo – è oggi la vera forza di Renzi. Deluderlo significherebbe la fine delle sue ambizioni personali e forse anche di quelle del Pd, che tornerebbe rapidamente alle tradizionali “gloriose sconfitte” in serie. Per questo l’appoggio incondizionato del premier al discusso nuovo “governatore” campano Vincenzo De Luca è stato un successo tattico, ma un suicidio strategico.
In questi sedici mesi il governo Renzi ha indubbiamente portato a casa una serie di riforme attese da anni, ma di queste ben poche (forse solo gli 80 euro in busta paga, il 730 precompilato e il “divorzio breve”) hanno agevolato la vita quotidiana degli italiani. Nel 2008, al termine di quindici anni di amministrazioni di sinistra al comune di Roma, l’ex vicesindaco Walter Tocci ammise autocriticamente che uno dei principali errori dei sindaci Rutelli e Veltroni era stato quello di non aver fatto nulla per aumentare la scarsa efficienza della macchina comunale.
Al di là delle dichiarazioni di facciata sul proprio impegno, quindi, è (quasi) sempre sul reale miglioramento della vita dei loro cittadini che un sindaco o un primo ministro si giocano la rielezione. Quel fatidico giorno molto conterà ovviamente la congiuntura economica, ma ancora di più conteranno l’avere avuto durante il proprio mandato un progetto politico realmente people-oriented, l’averlo saputo spiegare e (soprattutto) la volontà e la capacità di realizzarlo davvero. Se nel 2018 – o forse prima, se la scarsa maggioranza al Senato si sfalderà – Matteo Renzi saprà marcare questa differenza dai suoi predecessori, potrà essere il primo presidente del Consiglio in carica ad essere confermato dalle elezioni dopo la fine della guerra fredda. Altrimenti l’italica “ruota della fortuna” conoscerà un nuovo campione: gli aspiranti non mancano di certo.
di Alessandro Testa