Nella “prima Repubblica”, ai tempi del sistema proporzionale puro senza sbarramento, era consuetudine che nel lungo lunedì post-elettorale tutti i segretari di partito si dichiarassero soddisfatti e si proclamassero vincitori. Nella “seconda Repubblica”, basata su sistemi elettorali diversi ma comunque maggioritari, ciò non è più stato possibile, dato che è poco credibile cantare vittoria quando il sindaco o il presidente eletto appartiene allo schieramento avversario. Eppure, in questa insolita nuova fase di transizione, lunedì scorso tutti i leader di partito – ad eccezione dei popolari di Alfano e Casini – si sono sorprendentemente detti soddisfatti del risultato del voto nelle sette Regioni.
Al netto dei sette effettivi vincitori locali, compiendo una valutazione politologica complessiva a nostro giudizio non stavano bluffando (al massimo ciascuno ha enfatizzato un po’ troppo alcuni elementi a sé favorevoli). Anzi, aggiungiamo che, nelle condizioni di partenza date, difficilmente gli elettori avrebbero potuto votare meglio: hanno cambiato maggioranza in due Regioni e “partito del presidente” in altre due, per un totale di quattro ricambi e appena tre conferme (nelle apparentemente “blindate” Veneto, Toscana e Umbria).
Soprattutto, però, da una parte hanno premiato il governo nazionale facendogli mantenere il vantaggio di 5-2 che aveva prima del voto, evitando di creare nuovi scossoni ad una legislatura nata già gracile di suo ed evidenziando ancora una volta – per absentia – il valore aggiunto del premier-segretario Matteo Renzi, che al momento appare l’unica risorsa del Pd per guidare il governo oggi e vincere le elezioni domani.
Ma allo stesso tempo non hanno indebolito le opposizioni, anzi: il Movimento Cinque Stelle è tornato in salute e si candida a sfidare il Pd nel futuro (eventuale) ballottaggio nazionale previsto dall’Italicum, anche se il suo limite continua ad essere quello di non avere candidati forti sul territorio con cui vincere nelle Regioni o in Comuni importanti (finora gli unici capoluoghi a guida pentastellata sono Parma, Ragusa e Livorno). Chi invece sembra ormai pronto alla sfida nazionale è il giovane segretario della Lega Matteo Salvini. Il Carroccio infatti stravince in Veneto con Luca Zaia – l’unico presidente ad ottenere la maggioranza assoluta – nonostante la miniscissione di Tosi, e può vantare un credito politico per aver favorito la vittoria del berlusconiano Toti in Liguria rinunciando al suo candidato Rixi in nome dell’unità del centrodestra. Ma non piange neppure Berlusconi: nonostante Forza Italia sia andata malissimo nel voto di lista aggregato, e in Puglia sia arrivata perfino dietro al ribelle neoconservatore Raffaele Fitto, la vittoria in extremis del fido Giovanni Toti in Liguria consentirà infatti all’ex Cavaliere di giocare ancora uno scampolo di partita fino alla scelta del candidato del centrodestra alle future elezioni nazionali, alle quali non potrà comunque candidarsi per via della “legge Severino”.
Tornando al Pd, di sicuro aver mantenuto il 5-2 iniziale è un risultato più che accettabile, nonostante lo scambio tra Campania (dove De Luca ha vinto ma non potrà governare) e Liguria. Chi strumentalizza la sconfitta di Raffaella Paita per attaccare Renzi non ha tenuto conto del fatto che il premier si è tenuto volutamente fuori da queste elezioni regionali (da lui accostate, in maniera un po’ infelice, «alla Coppa Italia»). L’effetto del suo disimpegno è stato evidentissimo: rispetto alla parziale ripresa delle Europee del 2014, l’affluenza alle urne ha ripreso la sua ultradecennale tendenza a calare progressivamente, attestandosi poco sopra il 50%. Di conseguenza anche il Pd ha ripreso la sua tradizionale fisionomia di partito concentrato nelle “regioni rosse”: molto debole al nord e in via di meridionalizzazione, come dimostrano la larga vittoria di Emiliano in Puglia, quella sofferta di De Luca in Campania, la bruciante sconfitta della Paita in Liguria e la vera e propria umiliazione patita in Veneto da Alessandra Moretti, che ha raccolto appena un misero 22,8%.
A questa prima riflessione aggiungiamo poi che anche le roccaforti storiche sentono l’esigenza di un rinnovamento, che però non sempre viene offerto: in Umbria – unica regione dove centrosinistra e centrodestra si presentavano entrambi compatti – la presidente uscente, l’ex bersaniana Catiuscia Marini, è stata rieletta infatti con appena il 42,8% dei voti contro il 39,3% del suo sfidante Claudio Ricci. E’ molto probabile che in caso di ballottaggio si sarebbe ripetuto lo scenario dello scorso anno, quando il giovane berlusconiano Andrea Romizi ha strappato per la prima volta il comune di Perugia agli eredi del Pci-Pds-Ds.
L’indicazione che se ne ricava è quindi che al momento Matteo Renzi – e solo lui – continua ad offrire al Pd quel tanto di voti e di appeal in più che il tradizionale apparato della “ditta” non ha, e probabilmente non ha mai avuto. Anche la sconfitta in Liguria – favorita dall’addio di Civati e del suo candidato di bandiera Luca Pastorino – in fondo tornerà utile al premier, dato che fungerà da deterrente contro altri abbandoni e altre pericolose iniziative analoghe, almeno nel breve periodo. Avendolo intuito per tempo, Renzi ha dovuto fare tatticamente di tutto per mantenere a tutti i costi il bilancio finale delle Regioni sul 5-2, e per questo (un po’ a sorpresa) si è speso per il suo «impresentabile» candidato campano Vincenzo De Luca come non ha fatto per nessuno degli altri sei, ben sapendo che, a causa di una condanna in primo grado per abuso d’ufficio, il suo stesso Governo dovrà sospenderlo subito dopo la proclamazione ufficiale da parte del nuovo Consiglio regionale. La vittoria alla fine c’è stata, ma è costata molto di più di quanto non sembri: un simile appiattimento acritico sulle posizioni del più volte ex sindaco di Salerno, infatti, a conti fatti potrebbe aver danneggiato non poco l’immagine dell’ex «rottamatore» della vecchia politica, messo alle corde anche dalla nuova puntata dello scandalo “Mafia capitale”, nella quale sono implicati nomi importanti del Pd romano e perfino un sottosegretario – in quota Ncd – del suo Governo.
Nei prossimi anni non sono previste elezioni di rilievo. Imboscate parlamentari permettendo, Renzi dovrebbe quindi avere tutto il tempo di dimostrare coi fatti che il suo progetto politico per l’Italia è ben diverso dalla semplice “presa del potere” per mantenerlo il più a lungo possibile, come lo accusano di voler fare i suoi avversari, sia interni che esterni. Se ci riuscirà, se la sua azione di governo svecchierà almeno in parte la struttura istituzionale, amministrativa e produttiva di un paese rimasto fermo in gran parte al secolo scorso, il premier vincerà facilmente le prossime elezioni. Altrimenti, i suoi avversari saranno pronti a chiedergliene conto, e la legge elettorale a doppio turno da lui così fermamente voluta potrebbe paradossalmente consegnare la vittoria ad altri, come già fece il Porcellum con Prodi nel 2006 e come insegnano le clamorose sconfitte ai ballottaggi 2014 nelle ex-“rosse” Perugia e Livorno.