Affluenza che cala, astensione che cresce. Sta in questo “elemento secondario”, come lo definì Renzi un anno fa, la tendenza macroscopica del ciclo elettorale cominciato nel 2013. La partecipazione al voto è passata dal 75% delle Politiche al 58,7% delle Europee 2014, fino a toccare una media del 52% in queste Regionali. Nelle stesse regioni, cinque anni fa, l’affluenza media era stata del 63%.
È stato scritto e ripetuto che, dove si è votato, il Pd ha perso circa due milioni di voti rispetto alle Europee del mirabolante 40%. Sul piano della valutazione politica è doveroso rilevarlo, anche se da un punto di vista strettamente tecnico le comparazioni di medio-lungo periodo sui voti assoluti a singoli partiti vanno fatte con cautela, considerata l’affluenza alle urne costantemente declinante. Come pure è difficile, e forse improprio, proporre confronti in termini percentuali tra queste Regionali, le Europee 2014 e le Politiche 2013, vista la diversa struttura dell’offerta elettorale che caratterizza queste scadenze (liste del presidente, liste civiche di sostegno, logiche clientelari legate al voto di preferenza). Infine, i raffronti con le precedenti regionali rischiano di essere poco indicativi, se si pensa che allora sulla scena non c’era un soggetto ingombrante come il M5S.
Stabilire chi abbia vinto la competizione principale può sembrare a prima vista semplice. Il calcolo aritmetico, in stile “bandierine di Emilio Fede”, va tuttavia ponderato considerando le aspettative che gravavano sulle singole elezioni regionali, osservando i distacchi tra le coalizioni e, all’interno di esse, il bilanciamento di peso tra i soggetti che hanno concorso a sostenere i candidati “governatori”. Infine, i candidati non erano tutti ugualmente rappresentativi delle leadership nazionali dei rispettivi partiti.
Se si guarda alla “competizione minore” interna all’area politica della destra, l’avanzata di Salvini e l’ulteriore arretramento di Berlusconi sono lampanti. La vittoria del fittiano Schittulli nel duello interno a Forza Italia è bilanciata solo in parte dal successo di Toti in Liguria, che si deve al sostegno decisivo della Lega Nord (20%), primo partito del centrodestra anche in Toscana, Marche e Umbria, per non parlare del Veneto (oltre il 43% tra Lega, Lista Zaia e Indipendenza noi Veneto).
Nel centrosinistra Renzi non ha di certo trionfato. Oltre a dare addosso a Pastorino, nelle cerchie renziane si comincia a dire che la larga sconfitta incassata in Veneto è da addebitare al profilo già logoro della Moretti, figura vecchia, legata all’ancien régime di Bersani. Qualcuno, già alla vigilia, si era compiaciuto nel ripetere che, dopotutto, nelle democrazie avanzate un’astensione alta è un dato fisiologico, quasi un sintomo di maturità del sistema. E come è noto Renzi aveva provveduto ad attestare la linea della vittoria sul 4-3. Oltretutto, i colonnelli del partito hanno cercato di avvalorare una lettura aggregata e retrospettiva del risultato, sottolineando il complessivo 10 a 2 maturato nell’era del Pd dopo Matteo.
Tutti questi sono sintomi chiari di una certa idea del potere, molto banale e per nulla diabolica, che poco ha a che vedere con Dobbs o Machiavelli, Napoleone o Lenin, Vitellozzo o Underwood. Una concezione del potere che si fonda sulla riluttanza ad ammettere le proprie défaillance pur di tenere il bastone di comando. Anche in questa propensione a negare l’evidenza, che a tratti sconfina nella recriminazione, è profonda la sintonia tra Renzi e Berlusconi.
Ora, è chiaro che il renzismo non ha sfondato, non tanto e non solo per la sconfitta nelle due regioni e per il punteggio del Pd, ma per l'incapacità di prevalere con i candidati di scuderia, soprattutto in Liguria, dove la partita era aperta. Inoltre, né De Luca né Emiliano sono ferventi renziani. Va poi sottolineata la vitalità persistente del M5S, che il governo del populismo soft sembra non riuscire ad attenuare.
Ma Renzi, che considera questo risultato “molto positivo”, non ammetterà mai apertamente che l’aumento costante dell’astensione sia una questione democratica di prima grandezza, né che il suo vistoso calo di consensi rappresenti un problema politico. E non perché non se ne renda conto, ma perché allergico alle liturgie novecentesche e a quella particolare etica della responsabilità che, ad esempio, indussero Massimo D'Alema a dimettersi, nel 2000, dopo aver incassato una secca sconfitta alle regionali. Ovviamente la contingenza è diversa e le dimissioni sarebbero in questo caso eccessive.
Il punto però sta nell’ethos dell’attuale segretario del Pd, nella sua incompatibilità con il profilo tradizionale dei leader della sinistra postcomunista italiana, di solito attenti a restituire al proprio popolo un’immagine improntata al fair play. Matteo Renzi è servito di uno strumento solo apparentemente tecnico-procedurale, come le primarie, per scardinare i gruppi dirigenti del partito prima a livello locale e poi a quello nazionale, suggellando la sua scalata con l’elezione a segretario in una competizione aperta a elettori e simpatizzanti. Il risultato di quel congresso gli ha consentito di rovesciare i rapporti di forza in proprio favore, annettendo ceto politico vecchio e nuovo. L’egemonia nel partito gli ha permesso di arrivare al governo come sappiamo, legittimamente sul piano costituzionale ma con qualche forzatura politica che trascende il bon ton del party government. E ha concepito la dialettica parlamentare secondo un manicheismo muscolare molto pronunciato.
Pensare che oggi, dopo un 5-2 (anzi 10-2), dopo aver approvato l'Italicum a tappe forzate, aver avviato la fanfara sui dati della ripresa, si metta in discussione o addirittura faccia un passo indietro per lasciare libero corso al dispiegarsi della democrazia parlamentare, significa non aver colto l’essenza del personaggio.
Magari, un tempo, il segretario avrebbe ascoltato il richiamo di un’etica della responsabilità e si sarebbe dedicato all’analisi del risultato (se non della sconfitta), per rivolgersi alla testa dei militanti. Oggi minimizza per interposta persona e si fa immortalare alla playstation, quasi a dire “sto lontano dallo stress, fumo un po' e dopo gioco a Pes”, così da fare breccia nel cuore di chi può capire il riferimento culturale. Questa ostentata estetica dell’irresponsabilità, sbarazzina quanto irriverente, è l’ennesimo sberleffo a una tradizione considerata vetero che Renzi non ha mai negato di voler consegnare alla storia.