Nella sua lunga e illuminante Presentazione all’opera di Murray Edelman, Gli usi simbolici della politica, Giorgio Fedel ci ricorda che “gli autori sono pressoché unanimi nel riconoscere che l’azione rituale è «simbolica» […] Infatti, l’azione rituale collega i mezzi e i fini non come causa e effetto (cioè, intrinsecamente), ma piuttosto in modo simile al collegamento che le parole del linguaggio naturale intrattengono con il loro significato. Il rito «significa», nella mente dei partecipanti e dei credenti, i suoi scopi come il termine «tavolo» significa tavolo, senza alcun nesso causale e intrinseco tra i due”. (Edelman 1987, p. 19).
Una citazione come questa può aiutare, per certi versi, a comprendere quello che senza dubbio è stato un sonoro fallimento del PD e del suo ormai ex Segretario Pier Luigi Bersani nella gestione della corsa al Colle. Nella misura in cui la politica è strategia, ma ancor prima rituale, una corsa estremamente irrituale come quella che si è svolta sotto gli occhi attoniti di elettori ed eletti costituiva un terreno di gioco estremamente accidentato, e prima di condannare senza appello il Giaguaro Bersani occorre riflettere su quanto la corsa non fosse, in effetti, perduta in partenza, e perché.
I concetti di “simbolo” e di “rito” sono utili proprio in questo senso. Perché è caratteristica dei simboli vedere la propria forza evocatoria “dirottata” verso fini (politici) diversi da quelli ai quali per decenni o secoli sono stati funzionali. Pensiamo alla capacità del centrodestra italiano, e in generale delle forze conservatrici mondiali, di conquistare il monopolio della parola “libertà”: lungi dal richiamare l’emancipazione della forza lavoro dal giogo di coloro i quali posseggono le infrastrutture utili a generare quel lavoro, oggi questo termine diviene piuttosto sinonimo di liberismo economico svincolato da ogni laccio statale, o di esportazione coatta della democrazia in contesti geopolitici e sociali così lontani da esser poco più che nomi su una cartina geografica.
Dunque, la domanda è: in che modo Stefano Rodotà ha potuto divantare il simbolo del MoVimento 5 Stelle?
Un uomo dall’indiscutibile caratura morale, un laico a tutti gli effetti e in tutti i significati politici del termine.
Ma un uomo che, nel suo fondamentale volume Tecnopolitica, elogiando le possibilità di creazione di un nuovo spazio pubblico che la Rete offriva, riconosceva le tentazioni populiste che questo processo portava con sé, metteva in guardia dalla volontà di annullamento delle forme “tradizionali” di mediazione, si interrogava anzitutto sulla necessità di garantire ex lege la regolamentazione degli istinti del mercato e i pericoli in agguato per la privacy. “La tecnologia è seducente, poiché l’incessante sua produzione di novità si presenta appunto come «la» soluzione ad ogni problema personale, sociale, economico, politico, culturale […] Ma bisogna proprio chiedersi se la realtà debba ormai essere guardata soltanto attraverso la lente della tecnica, rendendo sostanzialmente vincolanti le soluzioni da essa proposte, o se la politica deve mantenere una sua capacità di filtro di ciò che l’innovazione scientifica e tecnologica continuamente propone. Altrimenti, una politica sedotta dalla tecnologia ne diviene ostaggio, rinuncia alla sua stessa natura” (Rodotà, 1997, p. XLII). Parole eccessivamente “mediatrici” per quello che sembra esser divenuto in brevissimo tempo il simbolo di un MoVimento che incarna una sorta di riflesso al contrario del luddismo informatico.
Ancora, un ex Presidente del Partito Democratico della Sinistra, un “padre nobile” di uno schieramento avverso tanto al Pdl quanto al M5S. Simbolicamente, l’impegno di Rodotà per la depenalizzazione dell’eutanasia e la non eleggibilità di esponenti politici indagati o condannati lo rende in effetti vicino al MoVimento. E qui è avvenuto il cortocircuito tra le due dimensioni reggenti dell’azione politica: il ritualismo che nel corso di tutta la storia dell’Italia repubblicana ha guidato l’accordo sul nome del Presidente della Repubblica ha sempre compreso la possibilità per una forza politica di esprimere una preferenza per un esponente della forza contendente che fosse più “compatibile” con la propria ideologa. È quel che è accaduto con il presunto accordo Pd-Pdl sul nome di Franco Marini. Dunque, c’è stato un momento in cui, fallita la mediazione “rituale” con il Pdl, il Giaguaro avrebbe potuto dar seguito alla mediazione “irrituale” con il M5S. Che, in forza del secondo soggetto sulla scena, non avrebbe preso la forma di un inciucio. Ma proprio qui scatta il cortocircuito. Perché c’è inciucio solo tra le forze politiche tradizionali, ma se uno dei soggetti in campo è il MoVimento di Grillo, la novità intrinseca nelle scelte di questo soggetto nuovissimo allontana per sempre ogni dubbio. E al tempo stesso, obnubila la memoria storica, fa diventare “grillino” un eminente giurista che in realtà ha aderito al progetto di centrosinistra italiano in tempi non sospetti. Rende vincitore solo uno dei contraenti. Rodotà Presidente sarebbe stata una vittoria, almeno in parte del Pd? Sia consentito di dubitarne. Era dunque una scelta possibile? No.
Diverso, ancora una volta secondo la ritualità “tradizionale”, il discorso su Romano Prodi. Uno dei nomi del Pantheon generato online dal MoVimento, eppure un personaggio simbolicamente non assimilabile al partito di Grillo – cosa rappresenta Prodi? L’Europa, che Grillo aborre. L’Ulivo, che è il contrario del MoVimento.
Un Presidente sul quale lo stesso leader del MoVimento aveva fatto qualche apertura. Nulla di fatto anche sul suo nome. E nell’incertezza politica e nello sconforto personale che segue questa seconda fumata nera, emerge come una salvezza il nome di Giorgio Napolitano. Che ai tempi della sua prima elezione fu una vittoria della sinistra, oggi è solo la dimostrazione che la politica non sa / non può prendere decisioni. E dopo essersi inutilmente dimenato nel tentativo di gestire un’elezione presidenziale dalla quale tutti gli altri contendenti avevano da guadagnare più di lui (chi per rivendicare l’alternanza e l’alterità tra il Colle e Palazzo Chigi, chi per dimostrare lo stato comatoso dei soggetti politici “tradizionali”), il Giaguaro si è trovato di fronte alla scelta obbligata di votare, tra le lacrime, chi nel novembre del 2011 decise di insediare un governo tecnico piuttosto che andare ad elezioni che lo vedevano, lui, Bersani, nettamente favorito.
Un grande applauso ai perdenti,
perché non bluffano mai,
perché non hanno parenti,
e non li adottano.