Sabato 9 marzo Matteo Renzi, intervistato da Fabio Fazio a Che tempo che fa, ha espresso posizioni di grandissimo buonsenso. Tranne una.
È stato un segno di grande responsabilità politica rispondere “E' insopportabile vivere di rimpianti” a Fazio che dava il via all’intervista prendendo atto di un dibattito sul risultato elettorale Pd riassumibile nella formula “Se c’era Renzi…”. È stato un segno della sua grande capacità comunicativa rafforzare la risposta con il paradosso (non solo fiorentino) per cui “Se mia nonna avesse avuto le ruote sarebbe stato un carretto”. È sacrosanto rivendicare che l’attenzione del partito sia focalizzata, in un momento in cui la crisi è tutt’altro che alle spalle, sui temi concreti dell’occupazione e dell’economia.
È meno in linea con la fedeltà nei confronti della linea del partito uscita dalle Primarie attaccare lo “scouting” di Bersani nei confronti degli eletti del MoVimento 5 Stelle come deriva dello “scilipotismo”. È meno prudente considerare quella fetta niente affatto trascurabile di elettori che ha scelto il movimento di Grillo come una possibile preda di un partito tradizionale che sappia rinnovarsi. Ed è meno lungimirante auspicare nuove elezioni.
Davanti all’attuale segretario del Pd si prospettano tre strade: la più battuta nel dibattito di questi giorni, è l’abboccamento con i parlamentari del MoVimento 5 Stelle, un’ipotesi tanto vicina da spingere Grillo stesso a una presa di posizione solo apparentemente paradossale: “Qualora ci fosse un voto di fiducia dei gruppi parlamentari del #M5S a chi ha distrutto l'Italia, serenamente, mi ritirerò dalla politica”. La più immediata per risolvere il problema della governabilità, ma a parere di chi scrive (e non solo) mortifera per la necessità dei partiti di acquisire nuova credibilità, è il “governissimo" Pd-Pdl, che sarebbe facilmente presentata come l’ultima ritirata della “vecchia politica” nel fortino assediato del Parlamento italiano. La terza via è il ritorno alle urne, ma con che risultati?
Le tre strade del Pd sono ben riassunte nell’editoriale di Antonio Polito sul Corriere della Sera di lunedì 11 marzo, così come è ben riassunta la posizione del “rottamattore”: “Renzi pensa di poter battere Grillo sul suo stesso terreno, da solo e in campo aperto. Per questo spera che il dialogo fallisca e che si torni alle urne”[1].
Ma il risultato, appunto, è tutt’altro che certo. Soprattutto se, come certifica Ilvo Diamanti nelle sue Mappe, i due partiti principali della declinante Seconda Repubblica “sono rimasti senza profilo. Cioè, senza identità”. Prova ne sia che, da un lato, “gli operai – e i disoccupati – non si sono spostati a sinistra”; dall’altro, “i professionisti, gli impiegati e i tecnici […] non si sono orientati a destra”. I lavoratori “in fuga” si sono rivolti al M5S, che ha ottenuto un risultato ben più lusinghiero di quello numericamente rilevante alla Camera e al Senato: “ha assunto una struttura sociale interclassista. Da partito di massa […] come il Dc e il Pci della Prima Repubblica”[2].
Se la strada delle urne appare così perigliosa – e lo è ancor di più a livello comunicazionale, se si pensa che la “rottamazione” renziana è ormai largamente superata dal “tutti a casa” di Grillo, e che lo scontro rischierebbe di essere su un piano tutt’altro che simile, un po’ come un imprenditore dell’auto che tenti di rinnovare la sua azienda in un mercato che ha premiato chi sceglie la bicicletta – forse l’alternativa bersaniana non è poi così deprecabile.
Anche perché gioca su un elemento largamente sottovalutato: la possibile contaminazione dei parlamentari a Cinque Stelle alla prova del Parlamento. Qualche prova in questo senso è già disponibile; ancora sul Corriere della Sera, Fabrizio Roncone offre un ritratto rivelatore del “grillino” Ivan Catalano: “è uno di quelli ad aver capito meglio come ci si comporta, quando si arriva davanti a qualche telecamera. Intanto, si rallenta (non troppo, e non bruscamente). Poi si indugia (qualche secondo). Quindi si comincia a rispondere (possibilmente, fingendo un filo di fastidio)”. E le risposte di Catalano “tradotte in politichese […] diventano un concetto: il Movimento apre al Pd”[3].
Caratteristica dell’antipolitica al governo è cambiare registro. Può farlo secondo strategie ancora marcatamente antipolitiche – come Berlusconi che appare sempre sotto scacco da parte di una Magistratura e un giornalismo di sinistra che, in campagna come al governo, non lo vuol far governare – ma deve tener conto del cambiamento di setting. A questo, forse, il MoVimento di Grillo non è pronto fino in fondo. Ridere delle autopresentazioni dei suoi eletti – così simili alle audizioni per un reality – non aiuterà a comprendere il ruolo che essi giocheranno in Parlamento. Osservarne la contaminazione con la politica che vogliono distruggere forse è una strategia migliore. Tutto sta a vedere se Bersani avrà il tempo di giocare le sue carte.
di Christian Ruggiero[2] I. Diamanti, Destra e sinistra perdono il loro popolo. M5S come la vecchia Dc: interclassista, in la Repubblica, 11 marzo 2013.
[3] F. Roncone, Il promotore (inconsapevole) del referendum, in Corriere della Sera, 11 marzo 2013.