Un risultato eccezionale. L’impatto del disagio giovanile e sociale sui risultati elettorali 2013

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Pubblichiamo in anteprima l'editoriale del Prof. Morcellini per la rivista online federalismi.it

 

 

“Piccole occasioni di rottura della pazienza quotidiana
contengono grandi scosse:
di colpo le strade si riempiono di scontento
che sembra nato di pioggia come un fungo”

Erri De Luca, Il panello, ora in In alto a sinistra

 

Partiamo dal titolo, che altrimenti potrebbe apparire di maniera, collegandolo alla citazione di testa tratta da una bella pagina del racconto “Il Pannello”: vi emerge con forza la relazione tra il processo lento di accumulazione delle frustrazioni e del disagio, da un lato, e l’esplosione apparentemente improvvisa e inspiegabile di una risposta che ricapitola l’amarezza dei colpi ricevuti. Ma c’è anche un secondo insegnamento in queste sapienti parole: quello di rendere meno inesplicabile il cambiamento che sempre si presenta con modalità tutt’altro che trasparenti rispetto alle cause. Ecco allora che il richiamo al titolo scelto si sottrae alla retorica, perché esprime un preciso riferimento ad uno studio sulla eccezionalità della campagna elettorale, il cui esito stiamo commentando.

I risultati elettorali hanno fornito un riscontro oltre l’immaginabile alle previsioni “depositate” nell’Editoriale del numero preelettorale di federalismi.it di poche settimane fa[1]. Il terremoto politico è arrivato, l’incertezza politico-elettorale non solo ha portato alla tanto declamata ingovernabilità, ma sembra invocare ineducatamente un radicale rinnovamento della classe politica, in funzione dell’altrettanto radicale stravolgimento della geografia dei soggetti sociali in grado di aspirare al centro della scena. Anzitutto i giovani, che in questa occasione hanno espresso una decisa propensione non tanto antipolitica quanto antielitaria.

L’impegno a basso costo che la Rete sembrava promettere, e lo stile referendario della mobilitazione che le piattaforme digitali sono in grado di alimentare, si è concretizzato nel successo di chi ha scientemente disertato i salotti buoni della Tv, determinando una paradossale centralità del leader del Movimento 5 Stelle. Tutti gli ospiti della televisione sono stati costretti a fare i conti con la sua presenza/assenza, che ha in qualche modo strappato il velo dell’opacità televisiva alimentando il dibattito su altre piattaforme – prima fra tutte, Twitter. Ma non è neppure solo questo: all’indomani del voto, e forse per la prima volta in modo così convinto, il dibattito in Rete non si è spento, e anzi si offre come luogo privilegiato di verifica di una vecchia teoria[2]: i media digitali possono essere uno strumento di verifica permanente delle policies, e quanti hanno saputo usarli sapientemente in funzione elettorale si trovano ora di fronte una Corte dei Conti diffusa che forse non si aspettavano neppure.

La dimensione del cambiamento accompagna caratteristicamente ogni scadenza elettorale, ma in quest’occasione sembrava configurarsi come il plausibile esito di un eccesso di incertezza, che appare finalmente più chiaro dopo il risultato. L’incertezza era nell’aria, si percepiva nelle narrazioni della comunicazione e persino in quelle delle TV , ma soprattutto si respirava nel network informale di voci e sentimenti che la rete racconta; ovviamente a condizione di considerarla una mappatura delle terre sconosciute di una parte sempre più rilevante dell’opinione pubblica soprattutto scolarizzata e giovanile.

Ciononostante, i lettori ufficiali della crisi italiana, le gazzette e i politici in testa, sistematicamente tendevano a curvare l’attenzione verso il format di quel che già esisteva. Si trattava evidentemente di un processo autoconsolatorio, che è stato chiaramente smascherato dalle urne. In generale, anche lettori e studiosi più che avvertiti non mancavano di segnalare criticità e problemi, ma avviandosi poi ad interpretarli entro le categorie mentali e politiche del passato. A questo punto, è secondaria l’aspirazione ad ottenere un riconoscimento ex post per aver marcato una lettura pertinente del cambiamento politico italiano, e diventa invece indifferibile la sollecitazione ad uno scatto di analisi sui radicali segnali che la politica italiana ha ricevuto. Senza questo processo, che è al tempo stesso etico e scientifico, qualunque previsione connessa al pronostico sulle conseguenze del voto rischia di essere di corto respiro, e comunque incapace di interpretare le profonde contraddizioni bruciantemente messe in evidenza dalla somma dei risultati elettorali.

 

1. Società e politica in frammenti: la difficoltà della pre-visione

Passiamo ora ad elencare in ordine di rilevanza i nodi di scenario, alla luce di un’ipotesi semplice: è stata drasticamente messa in discussione la psicologia sociale ed individuale della politica italiana, del tutto impreparata allo choc, e dunque pronta ad imbarazzanti reazioni emotive che hanno quasi sfiorato una tentazione eversiva rispetto al voto: c’è stato chi ha invocato immediatamente il ritorno alle urne; chi ha macchinosamente chiesto di rivotare solo nella camera che ha dato risultati insoddisfacenti; chi ha chiesto di non proclamare i risultati “fino all’ultimo respiro” e infine non pochi, più o meno implicitamente, si sono lamentati dell’ immaturità politica degli italiani. Dopo i risultati, e in particolare dopo questi risultati, è il momento di dichiarare che un così alto tasso di incertezza, in termini di governabilità e di assestamento del sistema politico, può determinare una vera scintilla di cambiamento positivo: può essere la volta buona per una riforma della politica che la democrazia italiana non ha mai davvero conosciuto. Del resto l’autoriforma da parte dei partiti si è rivelata aspirazione retorica e poco più; come ammoniva Frantz Fanon, “non saranno mai i bianchi che fanno le leggi che servono per i neri”. Sulla base di questa considerazione, sono i cittadini elettori i titolari del potere segnaletico alla politica verso un radicale cambiamento. Chi ci ha creduto con convinzione, frequentando le reti sociali comunque costituite piuttosto che i salotti televisivi, oggi ottiene un’adeguata restituzione dalle urne.

Cercando di riassumere la situazione alla vigilia del voto, il punto di partenza è quello dell’incertezza non tra scelte già radicate ma in uno scenario più ampio: era impossibile sottovalutare l’impatto della trasformazione dell’offerta politico-elettorale (come specificamente previsto nel numero di Federalismi già citato), che ha avuto almeno due risultati: quello di esser percepito come un aumento degli spazi vitali di una politica considerata troppo prevedibile e ripiegata su sé stessa, ma anche la constatazione che l’aumentata offerta di copertura comunicativa della campagna elettorale è stata intercettata da una ampliata domanda di informazione, ancora una volta a chiara riprova dell’exploit di incertezza che ha caratterizzato opinione pubblica e specifiche audicence dei media[3].

Osservando le stesse schede elettorali, e indipendentemente dai risultati che per definizione fanno sempre soffrire di più i nuovi rispetto al “già visto” (ne sono una evidente riprova le difficoltà che hanno avuto i soggetti politici più nuovi rispetto all’offerta tradizionale), il numero di offerte politiche strutturalmente diverse dal passato supera non solo il bipolarismo di maniera che ha immobilizzato l’ultimo ventennio, ma anche i tradizionali punti di riferimento offerti dalle élites politiche agli elettori. Si potrebbe addirittura azzardare l’ipotesi che persino i soggetti più riconoscibili rispetto al passato erano a ben vedere attraversati da profondi moti di cambiamento interno. Per il centrosinistra basti pensare al fenomeno Renzi. Ma nel centrodestra è successo di più: il lungo ed inconcluso dibattito sulle primarie, l’inseguimento dei moderati “fuori” dal PDL ed infine l’enfasi sulla metrica delle alleanze.

Il cambiamento più radicale ha coinvolto, però, la drastica riarticolazione dell’offerta al centro dello schieramento, che è risultata a ben vedere l’unica novità immediata della politica italiana ad avere un suo mercato. Eppure, tutto ciò è stato banalmente classificato come flop dal nostro ammirevole sistema informativo. Qui siamo difronte ad una prova lampante del potere accecante dei sondaggi: dopo una lunga altalena negli exit poll, la lista di Monti ha superato lo sbarramento sia al Senato che alla Camera; ma nei dibattiti televisivi e persino negli echi dei giornali la memoria è stata attratta solo dall’oscillazione negativa delle percentuali, anche in questo caso rivelatesi infondate. Per uno studioso, un movimento preparato in poco più di un mese che raggiunge il 10% dei consensi è tutto meno che un fallimento .

Era dunque questa incertezza di fondo, agitata anche da processi di esasperazione di quella che opportunamente è stata chiamata fatica sociale, che ci aveva indotto ad ammonire soprattutto la plausibilità di condurre in questa occasione attendibili prospezioni dell’opinione pubblica, se non altro in ragione dell’imprevedibilità dei risultati e soprattutto dell’ insicurezza dei punti di riferimento che possono motivare in profondità i comportamenti.

Non si può dire che i sondaggisti abbiano adeguatamente percepito questa situazione (anche l’unica Agenzia che ha previsto un’importante variabile come la ripresa di Berlusconi ha poi mancato altri elementi di contesto). Una difficoltà equivalente ha caratterizzato però anche le previsioni di centri studi, studiosi di processi politici e forse anche di addetti ai media studies. In generale, però, come altre volte nel nostro paese, la funzione di accompagnamento critico ai cambiamenti che si profilavano sullo sfondo è complessivamente mancata ai grandi sistemi di informazione generalista come la televisione più della stampa.

 

2. La Rete come forma giovanile di ritorno alla politica

Ancora una volta, in questo saggio, si sceglie la strada di organizzare l’architettura dei dati intorno alle dimensioni più innovative rispetto al quadro già noto del passato. E dunque occorre cominciare dai militanti del Movimento 5 Stelle, smettendo di adottare termini quali “partito di Grillo” o “grillini”. Difficile non annotare, infatti, che queste definizioni così care al giornalese, portavano con sé un residuo di squalifica e di sottile delegittimazione, segnando un ulteriore vantaggio per quel movimento. Più il sistema li irrideva e più benefici elettorali hanno ottenuto; più i media tradizionali si lanciavano in una operazione di riduzionismo del fenomeno e più la Rete diventava il mainstream del suo non imprevedibile successo (non è un caso, per giustificare questo ultimo esercizio di troppo facile profezia ex post, ricordare qui che proprio dalla proposta da parte del Direttore Caravita di un numero monografico interamente dedicato al Movimento 5 Stelle, ha preso le mosse l’editoriale di analisi e “profezie” sul passaggio elettorale).

Ben più rilevante è però la constatazione che tutto il risultato elettorale del 25 febbraio, ed in particolare quello del Movimento 5 Stelle, indica un fenomeno vistoso di secolarizzazione del voto e di tendenziale presa di distanza dalle grandi narrazione del passato[4]. Comincia ad essere evidente che le grandi costruzioni di senso del passato abbiano perso la capacità di orientare/decidere il comportamento di voto delle persone. Detto più recisamente: le fedi di riferimento degli italiani, e più in particolare le appartenenze identitarie che pure hanno fortemente segnato la storia elettorale anche recente – pensiamo alla cultura cattolica, al suo corrispettivo di una certa cultura laica, senza dimenticare le tradizioni di sinistra –  non riescono più a tradursi in modo equivalente nei bacini elettorali in passato nettamente definibili come di massa. La riflessione in corso nel mondo cattolico[5], tradottasi in una rimodulazione più o meno chiara dell’appoggio politico al centrodestra, spiega solo in parte il ridimensionamento del PDL, mentre il flusso elettorale dal PD verso il Movimento 5 Stelle racconta ancor più recisamente un fenomeno nuovo: un elettorato non più disposto a votare a scatola chiusa in nome di una fedeltà che lo ha, in passato, portato a essere sin troppo paziente nei confronti della sua classe dirigente.

Altrettanto impressionante è l’ambivalenza comunicativa di cui il Movimento di Grillo si è avvalso: da un lato un’aggregazione tutt’altro che compatta nelle sue ispirazioni di fondo, sapientemente unificata dal vigoroso contrasto con le parole che hanno dominato la scena politica dell’ultimo ventennio, e soprattutto capace di un’analisi provocante della sociologia dell’esclusione giovanile.

Per questi motivi, il Movimento si è rivelato capace di restituire ai giovani e ai laureati italiani ultravulnerati dalla crisi anzitutto una rappresentanza sociale, e poi un’interfaccia politico-parlamentare.

Da questa angolazione, le tre principali aree politiche del paese pagano giustamente e finalmente l’assenza provocante di una politica per i giovani e per l’alta formazione. Scontano l’incuria nei confronti di Scuola, Università e politiche giovanili. Molti di noi erano da tempo in allarme per la diffusione dell’apatia politica e per la bizzarra fortuna di formule ipercritiche sui giovani: si va dai bamboccioni agli sfigati, dagli apatici agli inattivi, fino alla più sofisticata giovani né né, meglio nota negli studi di marketing come generazione neet (Not in Education, Employment or Training).

E’ cambiato tutto, nel senso preciso che le variabili di impatto del passato perdono peso ed è dunque prevedibile che la storia italiana del presente-futuro prenda nuove direzioni. Siamo di fronte a un reingresso dei giovani e dei loro interessi sociali nella scena dell’influenza e della pressione sulle decisioni[6]. A ciò si aggiunge la constatazione che la modalità comunicativa con cui si è presentato il Movimento 5 Stelle ha finito per funzionare. Occorre ammettere, autocriticamente, che avevamo immaginato che l’uso della Rete potesse sembrare un po’ rudimentale e quasi “generalistico” a soggetti smaliziati alle tecnologie e assetati dell’ultima novità. E’ stato un pregiudizio intellettualistico, perché rispetto alla arcaicità del teatrino televisivo è bastata la discontinuità di proclamare la castità comunicativa frequentando la Rete.

 

3. Un bilancio critico della mappa dei risultati elettorali 

Quanto al centrosinistra, le sue perfomances sembrano ispirate alla staticità piuttosto che ad una capacità di interpretare il clima di cambiamento. E’ singolare che dopo la complessa e discussa esperienza del governo Berlusconi, interrotta dal governo tecnico, il clima d’opinione favorevole al centrosinistra sia rapidamente regredito. Questa evidente tendenza d’epoca è attestata dal confronto tra i risultati di quest’anno e quelli della gestione Veltroni, che pure è stata liquidata come una sconfitta. E’ vero tuttavia che, nonostante alcune letture frettolose, entrambe le formazioni politiche principali del nostro paese, intese sia coma partito che come coalizione, escono usurate dai recenti passaggi elettorali e soprattutto da questo decisivo appuntamento nazionale. Dal punto di vista comparativo, la performance del centrosinistra risulta certamente dignitosa al punto di collocarla come prima coalizione d’Italia, negando comunque quel successo elettorale che avrebbe garantito una vera messa alla prova di un’intera classe politica nel contrastare la crisi italiana. La coalizione è chiaramente e saldamente radicata nella nostra realtà elettorale ma soffre in due direzioni: l’elettorato giovanile e le aree più deboli della società, ponendo un problema di radicale riposizionamento dell’identità, dei linguaggi e dell’offerta di valori politici. Occorre dire con chiarezza qualcosa sulla cifra simbolica che evidentemente l’elettorato ha letto nella sua proposta complessiva: una coraggiosa piattaforma di verità ha dovuto fare i conti con sentimenti di frustrazione e di rabbia che la consideravano “già vista” e troppo usurata; la razionalità si è infranta sulla crescente emotività degli elettori, regalando tutto il potenziale d’innovazione a chi ha saputo interpretare più da vicino i linguaggi del cambiamento.

Un processo simmetrico riguarda il centrodestra e Berlusconi. A caldo, prevale l’ammissione che entrambi hanno compiuto un processo fortunato di recupero di visibilità e di consensi. Ma ancora una volta questo giudizio è almeno velato dall’eccesso di fiducia nei sondaggi e forse da un credito ipertrofico nei confronti della personalizzazione della leadership. A ben vedere, la percentuale dei consensi del centrodestra non solo è a mala pena in linea con la storia elettorale, ma è addirittura in netto deficit con i risultati comparativi più stringenti (non si può dimenticare che sono stati persi circa tre elettori su dieci[7]) dimostrando così che la caratteristica parabola del declino riguarda entrambe le formazioni che definiremo più generaliste. Il confronto diventa ancor più crudele se si estende alla Prima Repubblica, e dunque con l’imponente capacità di attrazione della DC del passato.

Siamo però tenuti, a questo punto, ad esplicitare il concetto di partiti generalisti. Osservando la dinamica del voto entro un’ottica di analisi dei mercati comunicativi, non risulta impropria la metafora che partiti e coalizioni più tradizionali assomiglino sorprendentemente ai pubblici televisivi; è persino paradossalmente possibile individuare, sullo sfondo, la macrodivisione tra servizio e tv detta commerciale ed includere anche le due offerte politiche non ricomponibili a duopolio.

Occorre attentamente meditare sulle analogie; le mega formazioni politiche, come i grandi pubblici delle tv ominibus, condividono processi di invecchiamento, una certa tendenza alla domiciliazione comunicativa e, tutto sommato, anche il richiamo alla fedeltà d’antenna.

Sotto questa angolazione, che potrà apparire audace solo a chi sottovaluta la decisività dei climi di opinione[8], si può individuare un limite nella comunicazione politica di questa complicata e non gratificante campagna elettorale; a parità di condizioni, si è costruito un contesto psicologico e comunicativo di contrapposizione tra vecchia e nuova politica: una coppia apparentemente completare sul piano cognitivo, ma ad alta rendita in tempi di fluttuazione e di crisi permanente. Si pensi ad esempio quanto un item apparentemente così rozzo come rottamazione/innovazione si sia affermato, sfruttando un giudizio critico diffuso contro il governo Monti, come espediente che ha retrocesso nel tempo le criticità di Berlusconi e la crisi sociale e di opinione che lo aveva costretto a lasciare la premiership. E’ la riprova di quanto, nelle compagne elettorali, siano decisivi i microclimi d’opinione e le bolle speculative sulla comunicazione. la difficoltà di interpretare i cambiamenti di queste sfuggenti meteore psicosociali ha avuto, come sbocco inevitabile, il potere di riclassificare le proposte del centrosinistra entro una codificazione percepita come tradizionale.

Non c’è bisogno di aggiungere che, in un contesto di faticosa transizione dal sistema bipolare, i voti contro tendano a superare addirittura i voti convinti e d’opinione. Difficile non ammettere che la crisi (economica e di rilevanza sociale) della condizione giovanile era ben più attratta da un voto anti-istituzionale e comunque polemico rispetto alle proposte politiche percepite come ufficiali; combinandosi con la logica caratteristicamente referendaria della comunicazione politica in rete, su cui ci siamo diffusi nell’editoriale pre-elettorale e non solo[9], si è costruita una dinamica che ha fatto sì che, in larga misura, essa sia diventata il mainstream del cambiamento.

È stato così riscosso, nell’ignoranza del generalismo, un forte dividendo digitale, senza dimenticare però che esso porta con sé un virus nel tempo: quello di sottomettersi alla imprevedibilità e allo spontaneismo delle logiche della Rete, anche quando non si manifesta l’accordo con quei simboli che oggi ne hanno ricapitolato le tendenze.



[1] Una campagna eccezionale. La politica vecchia e nuova alla prova della battaglia elettorale, in federalismi.it, 3/2013.

[2] Lawrence K. Grossman, La repubblica elettronica. Prefazione di Mario Morcellini, Editori Riuniti, Roma 1997.

[3] I dati proposti da Demos & Pi, secondo i quali il 46% dei cittadini-spettatori ha seguito la campagna con assiduità e solo il 17% l’ha ignorata, sembrano riproporre, in particolare, una dinamica che chi scrive ha già osservato all’inizio della cosiddetta Seconda Repubblica: la domanda di informazione politica si configura come nettamente superiore a un’offerta che pure sembra sovrabbondante. Mario Morcellini, Elezioni di tv. Televisione e pubblico nella campagna elettorale '94, Costa&Nolan, Genova 1995.

[4] Jean-François Lyotard, La condizione postmoderna. Rapporto sul sapere, Feltrinelli, Roma 1979.

[5] Ripensando a caldo alla esperienza del “movimento di Todi”, comincia a delinearsi il dubbio che, al di là di eventuali “fortune” politiche per alcuni leader, il senso del movimento e della sua riflessione strategica esca severamente ridimensionato dagli orientamenti prevalenti nel risultato elettorale.

[6] Se la previsione si combina con la tradizione sociologica, appare un fenomeno tutt’altro che nuovo. Si pensi a quanto sembra pertinente, a distanza di un secolo, quanto scriveva Jane Addams scriveva: “I giovani di Chicago, ognuno perduto dietro i propri drammi e i propri sogni, annunciavano, nella gran parte dei casi silenziosamente e individualmente, il nuovo che rappresentavano: nessuno poteva pensare ancora al ‘secolo dei giovani’ eppure le avvisaglie erano proprio in quella direzione. Ma è tipico di ogni epoca avere stentato, nell’immediato, a comprendere il nuovo, la sua dimensione, la sua profondità”. Jane Addams, Lo spirito dei giovani e le strade della città, a cura di Raffaele Rauty, Kurumuny, Calimera 2013 (ed. or. nel 1909).

[7] La schiacciante maggioranza ottenuta dalla coalizione di centrodestra nel 2008 consentiva infatti alla coalizione convintamente guidata da Silvio Berlusconi di contare sul 46,81% alla Camera e sul 47,32% al Senato; cifre che in questa consultazione sono drammaticamente calate rispettivamente al 29,18% e al 30,72%.

[8] Su questi temi, ci sia consentito un riferimento “classico”: Brewer Smith, A Psychologist’s Perspective on Public Opinion Theory, in Public Opinion Quarterly, spring 1971.

[9] Il riferimento è, oltre all’editoriale già citato del numero 3/2012, al contributo Nonostante l'impar condicio. Vecchi media, tecnologie di rete e cambiamenti socioculturali, in federalismi.it, 13/2011.