Mentre in tutto il mondo, la comunicazione è diventata il settore trainante dell’economia e elemento fondamentale per ogni campo della società, in Cina la battaglia per affermare la libertà di consultare e di intervenire nelle Rete mondiale è ancora molto lunga.
Paradossalmente nel paese che ha ospitato (proprio in questi giorni) il "World Media Summit", che ha riunito alcuni grandi editori mondiali, è ancora proibito consultare numerosi siti internet, considerati illegali o pericolosi, e la libertà di espressione è un diritto che deve essere conquistato. Ci provano, con coraggio e determinazione, quindici tra accademici, docenti universitari, scrittori, giornalisti, storici e avvocati che – già promotori di "Charta 2008", documento di denuncia della situazione di repressione attuata dal governo cinese per il quale avevano subito minacce e processi – firmano una "Dichiarazione per i diritti umani in Internet" per denunciare le intimidazioni, i divieti, le minacce e gli arresti a cui sono sottoposte nel paese le persone che ricorrono al web per manifestare le proprie idee. Naturalmente il documento, che era riuscito ad essere pubblicato con un’abile manovra di aggiramento dei filtri e dei blocchi istituiti dal governo, è stato subito censurato e cancellato dalla rete in Cina. Ma è riuscito comunque a denunciare la gravissima violazione di diritti umani che questo enorme paese porta avanti ormai da tempo, ad avanzare le proprie richieste (ad esempio, l’istituzione di un "Internet Human Rights Day" il 10 ottobre di ogni anno per ricordare l’importanza che la libertà di parola sia tutelata in ogni sua forma, compresa quella on line), a mostrare il proprio coraggio e determinazione nello sfidare le dure reazioni del governo cinese. I firmatari, infatti, non hanno potuto pubblicare la loro dichiarazione quando avrebbero voluto, cioè simbolicamente in concomitanza con la parata militare che ha celebrato i sessant'anni dalla vittoria della rivoluzione comunista di Mao, poiché dispersi a allontanati dalla capitale vista la loro “cattiva fama” di dissidenti. Sono già 400, però, gli attivisti che hanno firmato l’appello, con il proprio nome e cognome. Un atto di coraggio che la comunità internazionale non può e non deve ignorare.
Ugualmente non può rimanere muta di fronte alla decisione del regime iraniano di condannare a morte tre dei manifestanti dell’onda verde contro Ahmadinejad “per il ruolo da essi avuto negli incidenti post-elettorali”, le cui immagini hanno fatto il giro del mondo. La “pubblicità”, infatti, che i dissidenti sono riusciti a fare della propria protesta grazie ai più attuali strumenti di comunicazione non è servita a far intervenire la politica internazionale, a mobilitare la società civile globale, ad evitare la dura repressione del regime. Dov’è allora quello spirito di libertà e di democrazia che, secondo i più ottimisti, è portato inevitabile delle nuove tecnologie? Come riuscire a esprimere le potenzialità che i new media sembrano ricoprire per i cittadini di tutto il mondo, promuovendoli da semplici spettatori a protagonisti della vita pubblica? È proprio in paesi difficili, come l’Iran e la Cina, che queste “ipotesi” possono testarsi, ma finora le coraggiose azioni portate avanti dalla società civile di queste nazioni non ha trovato l’attenzione e l’intervento che meritavano da parte della comunità internazionale e l’unica evidenza che rimane è che è sempre, ancora la politica ad avere l’ultima parola. Forse è utile anche ricordare che sono i grandi colossi americani Microsoft, Google e Yahoo a dotare la Cina dei software necessari per potenziare i “filtri” della “Muraglia di fuoco ” (come è chiamata la censura online in Cina) e che un consorzio europeo formato dalla finlandese Nokia e dalla tedesca Siemens ha fornito simili strumenti di controlli di Internet al regime iraniano (il cosiddetto deep packet inspection), dando la possibilità di effettuare indagini e intercettazioni sui 23 milioni di navigatori e di risalire agli autori di email considerate “sovversive”. Seppure simili, le due strategie differiscono leggermente: mentre la Cina effettua una vera e propria censura a monte attraverso i filtri (strumento comunque meno sicuro per la rete), l’Iran più che bloccare l’accesso ai siti controlla chi vi si collega. Infine, è necessario ricordare che non solo la Cina e l’Iran attuano queste politiche censorie verso i mezzi di comunicazione. Secondo uno studio condotto da OpenNet, sono almeno 25 i paesi in cui il governo impone una censura sulla rete: in alcuni stati dell’Asia, Medio Oriente e Nord Africa è vietato l’accesso a informazioni relative alla politica, alla sessualità, alla cultura e alla religione perché ritenuti argomenti troppo sensibili; in Siria, Tunisia, Vietnam, Birmania vige una censura politica che vieta l’accesso ai siti di separatisti ed estremisti, per motivi inerenti alla sicurezza nazionale. In Corea del Sud è impedito l’accesso a qualsiasi sito contenga informazioni sulla Corea del Nord, mentre nello Yemen, in Arabia Saudita e in Tunisia, si bloccano le informazioni di carattere sociale.